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Andare dal mago ha forse oggi un significato diverso da quello di ieri, o meglio si inserisce in un contesto sociale differente. Viviamo in una società complessa e frantumata, dove non è facile trovare coordinate di riferimento per l’eccessiva presenza di elementi da controllare e per la grande dispersione dei punti di riferimento. Le sicurezze ‘magiche’ ci hanno abbandonato. Pensavamo prima che fosse solo l’ambito della religione a richiederci la fede, ad esigere un oltrepassamento del ‘vedere e toccare con mano’. Adesso sappiamo che anche l’approccio alla realtà che si vede e si tocca è soggettivo: discutibile e debole. Viviamo in una società post-narcisistica, nella quale l’esasperazione dell’immagine sta rivelando sempre più lo sfondo da cui era originata, ovvero il senso di vuoto e di frammentazione interna. È stato scritto che siamo passati dall’«uomo colpevole », che era al centro della società di inizio secolo, all’«uomo tragico»: un uomo che avverte con sempre maggiore angoscia il senso di essere «gettato nel mondo». La paura nei confronti della realtà odierna può anche mascherarsi di altre motivazioni, ma diventa angoscia quando attinge da questo fondo oscuro. Anche l’incanto dello specialista, della tecnica, che aveva sostituito l’in canto della natura, è svanito. La scienza, compresa quella medica, alla quale affidiamo la nostra speranza di vincere la malattia e il dolore, rivela le sue insicurezze, le sue opinabilità. L’ammalarsi resta in agguato e il guarire appare ancora lento e precario.

Giovanni Salonia, Sulla Felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, Ed. Il Pozzo di Giacobbe, pagg. 99-100



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