di Giovanni Salonia
«Shomèr ma mi-llailah?»: «Sentinella, quanto resta della notte?». Quanto manca ancora alla sua fine? Se lo chiedeva il profeta e lo canta Guccini: «Sembra che il tempo nel suo fluire resti inchiodato». E anche noi continuiamo a chiedere, a richiedere: quanto manca? Si è rotto qualcosa. Il fluire scontato del tempo e delle sue vicende è stato sospeso e siamo rimasti in un’apnea che ci paralizza. Che il tempo sia sospeso lo sappiamo dal nostro respiro sospeso. Pensavamo che questo virus restasse lontano. Poi è approdato sempre più invasivo e pervasivo, letale. Non sapevamo se le prime mascherine fossero prudenza o ipocondria. E poi il lockdown. Anche se a malincuore, l’abbiamo vissuto; in attesa che tutto tornasse come prima: ‘andrà tutto bene’. Cantavamo canti che si infrangevano davanti alle porte degli ospedali o delle sale di rianimazione. E poi liberi. Siamo tornati per le strade, come il ragazzo che torna a scuola dopo mesi di sospensione. Siamo stati bravi – ci siamo detti – e meritiamo la fine di ogni restrizione. E così ci siamo ubriacati di contatti, di abbracci, di danze e di vicinanze.
Ma l’errore che ha generato il virus, il nostro errore era troppo grande. Da secoli saccheggiamo la terra. E il virus è tornato. E sono tornate le mascherine a nascondere la grazia dei sorrisi e, a volte, anche il riconoscimento di un volto amico. È tornata l’apnea. Questa volta accompagnata dalla domanda che ci facciamo tutti: ma finirà? Ogni sera il conto delle vittime e dei contagiati ci fa sentire appesi ad un filo. Anche se lo neghiamo: – Signora purtroppo il tampone è positivo… – Dottoressa, non può essere io mi sento bene. – Ma signora, non ha qualche sintomo? – Che vuole che sia, dottoressa? Non sento i sapori e gli odori… Ha ragione il poeta: «quando per un segnale incomprensibile / lì nella brulicante commedia / l’azione si interrompe» risalta la «malcelata verità» di ognuno: quelle follie silenziose, quei pensieri magici tenuti a lungo a bada. L’emergenza fa venire a galla le nostre angosce e la voglia infantile di una magia che ci liberi da questa roulette russa.
Sospesi. Si è interrotto il next, il prossimo passo che davamo per scontato, la sequenzialità che è dentro ogni presente. Pure ora: state leggendo una parola e cercate la prossima. E poi il punto. E poi un’altra parola ancora… Non si sa più se finiremo una giornata come l’abbiamo iniziata, se finiremo la frase iniziata. Eravamo sospesi anche in primavera, ma oggi, come in ogni ricaduta, è più pesante: per chi si sente assediato a causa della salute o dell’età; per coloro che si trovano sulla prima linea della cura; per chi resta al lavoro o sulla strada; e anche per quanti pensano che mai saranno toccati (perché giovani, perché in gran forma, perché non credono che tutto questo sia vero). Si è rotto il tempo come pare essersi rotto quello spazio comune che avevamo infine costruito in primavera. Programmare è impossibile (potremo sposarci? potrò partire?). Vivere alla giornata è duro. Abbandonarsi all’inconsapevolezza non ripaga dell’area plumbea che anche chi fugge non può non sentirsi addosso. Né riesce a consolarci il pensiero di essere dentro una svolta della storia. Sarà triste lo stesso quando un giorno rivedremo le fotografie di un compleanno festeggiato in solitudine o porteremo qualche fiore e una lacrima alla persona cara che non abbiamo potuto accompagnare negli ultimi momenti della sua vita. È proprio così. Siamo fatti per fluire. Siamo fatti per il futuro. Quando il futuro si annebbia e diventa impossibile sognarlo, qualcosa ci si blocca dentro, fino alla disperazione o alla fuga, che della disperazione è un’altra forma. In una solitudine che insidia ogni aspetto della vita.
Forse ad offrirci una strada è ancora una volta il triangolo della nostra esistenza che è fatta di corpo, di tempo, di altri. Ritorniamo a vivere dentro questa ovvietà luminosa, ogni mattina, ogni momento della giornata. Lasciamo respirare il nostro corpo, senza contratture e senza sospensioni. Cogliendone fino in fondo l’energia. Abitiamo nel tempo, dilatando il presente e riducendo fiduciosi il progetto a lungo termine: se restiamo in contatto con noi stessi un’alba nuova verrà. E poi gli altri. Non chiudiamoci negli egoismi impauriti che riemergono, a volte violenti, in un momento in cui ognuno è tentato di pensare a sé stesso, ai suoi, nel senso del riparo e del profitto, misero magari. Ritroviamo il gusto di guardarci negli occhi, di scambiarci vicinanza e calore, di sperimentare quell’appartenenza (che è infine appartenenza all’umano, appartenenza al creato) che ci aiuta ad attraversare i possibili deserti della solitudine. Goodman dice che in certe emergenze ci viene chiesto soltanto di essere pronti. A testa alta, con il respiro pieno, l’appartenenza calda. Sentirsi pronti. Adesso. L’amore di oggi, di questo momento. L’amore che riempie il corpo e dimora, e resiste in ogni sospensione.
Se dovessi dirlo in breve, direi che si tratta di imparare una versione ‘femminile’ della vita. Le donne conoscono meglio degli altri questa dedizione quotidiana, questo rimanere nell’amore e nella cura, questo dar senso all’istante in vista del bene dell’altro. Parlavamo con amici, una sera, di quanta vita e di quanta vitalità questo virus finora sia riuscito a sospendere. Conversazione triste. Ad un tratto un’amica, medico di famiglia, con voce pacata e sicura, si lascia andare ad un commento che mi tocca e che vi regalo. Dice: «Ma mentre fuori tutto continua ad essere segnato e guidato con violenza dal contagio, c’è un luogo dove il tempo continua a scorrere sereno, immune da qualsiasi interruzione, sospensione, interferenza: è il grembo di una donna che si prepara ad essere madre: nessuna pandemia riuscirà mai a turbare il tempo del battito di una vita che cresce nell’utero della propria madre, protetta e abbracciata, senza distanza, settimana dopo settimana». Come a dire che lì, pur con tutte le paure e le fibrillazioni del presente, lì dove una donna si piega idealmente su chi ha generato ed ama, il virus non ha presa.
Nel tempo sospeso non sospendiamo il fluire dell’amore.