di Giovanni Salonia
Sartre aveva torto. L’inferno non sono gli altri. L’inferno è la loro mancanza. Dal trono della sua inconsapevole cattiveria (dopotutto che ne sa lui, lotta per sé stesso con le sue cuspidi, avide della nostra debolezza vitale), il virus non è riuscito però a congelare uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano. Anzi lo ha enfatizzato. Senza gli altri, senza il contatto cordiale con gli altri, sentiamo freddo. O meglio, ci sentiamo freddi e ci intristiamo. Perché anche al narcisista e all’arrogante torna al tramonto, della giornata come della vita, la voglia di casa, la voglia dell’altro. La quarantena perpetua di tanti anziani, di tanti nonni, di tante persone afflitte da varie fragilità rappresenta oggi una prova grandissima, che espone allo sconforto e alla depressione. D’altronde, il terrore di morire da soli accomuna gli ammalati e coloro che li amano, di fronte all’incubo di quel ricovero in ospedale che scava un tunnel di separazione e di isolamento. Se si è fortunati, ci si trova consegnati a mani sconosciute, imbarazzate forse, a sguardi (lontani: dietro lo scafandro che protegge) che esprimono pietà ma non appartengono alla nostra storia corporea. Morire da soli è un inferno.
Oggi il poeta non può cantare: “Che dici? / Se ti abbraccio forte forte, / ho qualche chance in più/di scampare alla morte? “(Marcoaldi). Oggi la madre di Ben non potrà dire a suo figlio, stringendolo a sé, che l’abbraccio è stato inventato per unire le solitudini (Grossman). “Non ti abbraccio perché ti amo”: è questa la nostra terribile realtà. Come evitare allora che questo inferno della solitudine non contagi la nostra esistenza? Come evitare che l’impossibilità di abbracciarci ci inaridisca, blocchi il consegnarsi dell’anima? E come riscaldare i nostri incontri senza abbracci?
Non ci sono altre vie. Ci sono rimaste le parole. È la loro forza, è il loro potere l’unico antidoto alla solitudine, alla mancanza, all’inverno degli affetti. Certo, le parole possono unire e separare, farci incontrare e farci disperare, accarezzare e pugnalare. A volte sembrano ubbidirci. Creano calore vicinanza, magia, placano i cuori. Altre volte sembrano allontanarci. Generano malintesi, impediscono la condivisione (quanti equivoci quotidiani nei messaggi scambiati su WhatsApp o sui socia!). Per questo, è come se dovessimo imparare di nuovo a parlare, ricominciare a cogliere, delle parole, la potenza e il mistero. Ricordiamocelo: in principio le parole sono musica. La loro prima forma, la lallazione, è una lingua dell’incontro e non del significato. Così come pura musica è per il neonato la parola materna, sin dal grembo. La musica non conosce ostacoli, arriva dovunque, al cuore di ognuno. Mentre non possiamo abbracciarci, impariamo allora ad ascoltare la musica delle parole, a raggiungerci sin nel profondo, scrivendo nel corpo dell’altro il nostro affetto, come se l’aria, la carta o lo schermo su cui le stampiamo fossero il corpo di quelli che amiamo. Non si tratta di imparare la retorica, di fare bei discorsi, ma di dire, sentendole, assaporandole, quelle poche parole che toccano e ci toccano.
Iniziando dal nome. Come diciamo ogni giorno il nome dell’altro che non possiamo toccare? Torniamoci su, risentiamo la musica del chiamare. Rimasi affascinato, un giorno, quando mi trovai a leggere la dedica che Erving Polster, uno dei grandi maestri della Gestalt Therapy, aveva voluto all’inizio di un suo libro: “A Miriam, Sara e Adam. Mi piace dire i loro nomi”. Erano i nomi di sua moglie e dei suoi due figli. Pensai subito a Francesco d’Assisi: i nomi di quanti ci stanno a cuore hanno il sapore del miele sulle labbra. Ricominciamo a dire i nomi così, con questa intensità, con questa gioia. Dirli e ascoltarli ci farà sentire rigenerati, riconosciuti. Mettiamo questa gioia musicale, questa melodia interiore anche nel semplice TVB oggi così in uso nei messaggi. Come la punta di un iceberg, come il condimento di pochi ingredienti capaci di calore. Diciamoci: “stasera sento gratitudine”; “adesso mi sento riscaldato”. E diciamoci il perché. Condividere cosa ci accade dentro genera legami e calore. Anche le esperienze sgradevoli si possono comunicare così, esprimendo il bisogno, il desiderio, le attese che pur se deluse dicono un sogno, una speranza. È questo il segreto: ogni parola deve emergere dal corpo di un io e avere un tu, avere un corpo a cui è intimamente rivolta. Quando si parla senza rivolgersi a un tu, le parole si moltiplicano, non ci si sente mai sazi di parlare, si ha l’esperienza terribile di parlare a vuoto. È il parlare senza direzione. Non sono infatti le belle parole che fanno un incontro, ma quelle piene di me e di te, della mia e della tua unicità, della nostra musica. Anche nel conflitto. Se usi il tu, esci fuori dalla trappola dell’accusa, consenti lo scambio: intendevi dire questo? ti senti ferito? ti senti impaurito?
Ascolta la parola dell’altro, come Vasudeva, il vecchio barcaiolo di Siddharta, ascoltava il linguaggio del fiume. Se farai spazio alla sua musica, gli restituirai la parola giusta. Guardandolo negli occhi, realmente o idealmente. Perché la parola, avida di vita e spogliata dell’alleanza di un abbraccio, di una carezza, di una mano tesa, giunga dagli occhi all’anima. Ancora una volta, mi dico, aveva ragione il mio amico poeta: “Solo parole abbiamo/ per trovarci/ e d’amore il filo / che resiste” (Alberto Melucci).