– Chiedere ad ogni membro della famiglia di presentarsi e di condividere la propria valutazione del ‘sintomo’.
Intervento decisivo per passare dalla prospettiva unilaterale (fissità della diagnosi) ad una prospettiva familiare di condivisione. I membri della famiglia cominciano a sentirsi coinvolti: passa il messaggio che si possono avere pensieri diversi su ciò che accade a casa. Dalle risposte sulla valutazione del sintomo, si può già cogliere una prima visione delle dinamiche familiari: ‘esistono alleanze?’, ‘sono positive o contrapposte?’, ‘il legame di coppia è differenziato, conflittuale o confluente?’. È avvenuto così un primo passaggio: dal sintomo di un figlio ai rapporti dei membri tra di loro. Spesso già la prossemica ne è rivelativa.
– Domandare se altri in famiglia hanno o hanno avuto sofferenze simili e, in particolare, se qualcuno dei genitori all’età del figlio pd (paziente designato) ha avuto lo stesso o altro sintomo.
Di fronte a queste domande succede molto spesso che uno dei due genitori rivela che quando aveva la stessa età del pd ha accusato dei disagi espressi con altri sintomi o, a volte, addirittura identici. È toccante vedere la sorpresa ‘piacevole’ del pd a questo racconto che gli offre una nuova prospettiva: non è più solo lui il problema di casa (il bad o il mad). In tal modo, inizia a dissolversi la figura rigida e ad emergere lo sfondo delle gestalt relazionali ancora aperte.
Giovanni Salonia, Danza delle sedie e danza dei pronomi. Terapia gestaltica familiare, ed. Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2017, pag. 93