Grazie alla generosità di tanti prestigiosi colleghi, da questa semplice domanda (ma le domande semplici sono le migliori: i bambini insegnano!) è venuto fuori un panorama variegato e intrigante dello status della Gestalt Therapy dopo ormai così tanti anni dal suo esordio (preparato, come sappiamo bene, sin dagli anni Quaranta, dal lavoro sudafricano di Fritz e Laura Perls). Non possiamo che essere grati e fieri del contributo che questo numero di GTK offre, in tal modo, all’universo gestaltico nelle sue varie diramazioni.
A guardarli dall’alto, questi testi testimoniano infatti una consapevolezza nitida e una profonda vitalità. I fili forti, resistenti, sono molto chiari. Da un lato si capisce come per la Gestalt Therapy rimanga centrale la questione del corpo, nella comprensione clinica e nella pratica terapeutica, declinata in senso innovativo da Gianni Francesetti in termini ‘paesaggio corporeo’. Per altro verso, questi saggi confermano l’ermeneutica relazionale della Gestalt (basti pensare al saggio ‘buberiano’ di Olga Nemirinskyi), sia nell’ambito della terapia individuale e di gruppo (secondo la lezione del Cape Cod Model, richiamata acutamente da Joseph Melnick, ma anche nel contesto della funzione sociale del sé, evocata da Alfred Boeckh), come in quello della supervisione clinica (secondo le linee proposte da Sergio La Rosa). Si tratta sempre di fare i conti col passato, con la feconda teoria degli inizi (e qui si innesta il contributo di Mariano Pizzimenti), senza rimanere fossilizzati. Un rischio che è convinto di non correre in alcun modo l’Istituto ‘principe’ della teoria gestaltica, ovvero l’Istituto di New York, la cui voce è rappresentata nobilmente in questo numero della nostra rivista da Dan Bloom. Perché si può essere al contempo liberi e fedeli: fedeli a una lezione decisiva e capaci di farla parlare e vivere nell’oggi.
In quest’orizzonte ermeneutico, sulla questione del cambiamento in Gestalt e con la Gestalt lavora finemente Jean-Marie Robine, mentre sulle vie future della Gestalt Therapy ragiona Peter Philippson, che valorizza quello che potremmo chiamare il ‘multiverso’ gestaltico, frutto di una apertura dialogica e di una discussione democratica tipici del background più intimo della Gestalt e del suo libro fondativo, della sua ‘bibbia’ (l’influsso di Paul Goodman naturalmente non è estraneo a tutto questo).
Come è apparso nel numero 9 di GTK, d’altronde, anche il nostro Istituto di Gestalt, nei suoi quarant’anni di vita e nella sua attività, sia sul territorio italiano (dalla Sicilia a Roma a Venezia) che nel contesto internazionale (dall’antica relazione con i luoghi classici del nostro approccio: americani, inglesi, francesi, tedeschi; a quella più recente e feconda con la nuova ‘realtà gestaltica’ dell’Est europeo), ha partecipato all’ideale conversazione rappresentata in questo n. 10 della nostra rivista, contribuendo a delineare una immagine della Gestalt Therapy centrata su alcuni punti fermi: una nuova comprensione della teoria del contatto; la diagnosi e sulla cura della psicopatologia; la terapia gestaltica per le famiglie; la dimensione evolutiva; la valenza psicosociale del nostro modello.
Eccoci qui allora, a settant’anni da Perls-Goodman, a confrontarci e a discutere, senza temere le divergenze, ma al contrario nella consapevolezza che solo da un dialogo schietto e profondo può venir fuori qualcosa di effettivamente nuovo, all’altezza del tempo che viviamo. D’altronde, come affermava Perls nella prefazione del 1969 a Theory and Practice of Gestalt Therapy, solo l’ascolto autentico tra diversi può rappresentare il fondamento di un’epoca di pace e di speranza.