di Giovanni Salonia
Abbiamo paura. Siamo dentro la paura. Paura di essere contagiati o contagiosi. Paura di ammalarci e di far ammalare. Paura del passo veloce e felpato di un’entità invisibile che si manifesta in modi subdoli e aspecifici. Temiamo la superficialità di chi ci sta accanto. Temiamo di essere atterrati dal virus, di perdere il lavoro (quanti dicono con disperazione: «non faccio il tampone perché non posso permettermi di non andare al lavoro»), di restare tagliati fuori dalle reti sociali e familiari. È una paura che confonde e che nei più fragili diventa terrore: «Non ne usciremo più!». Viviamo con l’incubo di doverci piegare chissà per quanto ancora alle gelide leggi della pandemia. Conviviamo con l’angoscia di continuare a sottrarci senza tempo ad abbracci e ad incontri, a contatti e respiri. Il distanziamento mentre contrae i corpi dissecca le anime: ci rende lentamente ma quasi inesorabilmente più tristi. E la paura della solitudine? Negli ospedali si entra da soli e soli si rimane. La solitudine che si respira nelle corsie ospedaliere, il vuoto attorno a chi soffre e non può ricevere una carezza, o a chi muore senza una mano che lo accompagni: è l’aspetto più brutale e disumano di questa pandemia, riflesso negli occhi e nella voce di un anziano ammalato che dice al suo medico: «Dottoressa, la supplico, non mi porti in ospedale, non voglio morire solo, mi lasci andare via con mia moglie accanto». È vero: la vita è vita se c’è calore. Ma una vita senza calore che vita è?
E poi il virus non puoi controllarlo. In una società come la nostra, in cui un quarto d’ora di visibilità rischia di essere più prezioso del paradiso, siamo stati atterrati da un virus invisibile. Non lo vedi né in te né nell’altro, ma è lì. Continuamente, ossessivamente esposto: in tv e sui giornali, nei discorsi e nei cuori. Quanti contagiati oggi? Più di ieri? Per questo ci sentiamo impotenti e vulnerabili. Ogni malessere ci inquieta, ogni benessere ci sembra precario. E intanto crolla la fiducia nei ‘competenti’, che propongono soluzioni spesso opposte ma presentate da ognuno di essi come uniche e assolute. A chi dar retta? E poi la pandemia è segnata oggi da pesantezze ignote alla prima ondata. Non c’è più la chiarezza che veniva dallo stare a casa, dai provvedimenti univoci. Non si sa quanto proteggersi e quanto si esageri. Soprattutto, gli eroi della primavera – i medici e gli infermieri, gli operatori della sanità, i volontari – sono stanchi. Forse i loro sforzi non sono stati abbastanza riconosciuti ed ascoltati. La sanità non è pronta come speravamo. Paghiamo ritardi e disinvestimenti di decenni. Scontiamo un sistema che scarta i poveri, che non si cura degli anziani, che non pensa alla salute di tutti, che coltiva l’eccellenza e non custodisce la normalità. Siamo messi di fronte ad una responsabilità individuale e sociale che fatichiamo a reggere: la nostra estate lo ha dimostrato. Ma allora che fare? Come fronteggiare la paura? Come ritrovare la fiducia? Siamo di fronte a compiti epocali: cambiare un mondo profondamente ingiusto, trovare un senso diverso ad una vita che pensavamo di dominare e che ora ci sfugge, che ci fa sentire gettati nel dubbio, nell’insicurezza, nella paura appunto.
Nessuno ha ricette facili. Non ci sono scorciatoie. Ricominciamo – direi – da un modo nuovo di raccontarci. Dobbiamo cambiare i nostri sogni. Abbiamo sognato a lungo sulla base della nostra immagine. Ora siamo chiamati ad altri sogni: sogni di cuori svegli e di relazioni nutrienti, di ciò che solo rende vera la vita. Perché quando passerà la tempesta dovremo ritrovarci più consapevoli e più pieni di umanità. Più distanti dal gioco delle immagini e delle apparenze, pronti a vedere quell’invisibile che solo il cuore vede.
Siamo provati ma il tempo è propizio. Guardiamo più a fondo. Guardiamo oltre. La paura è in origine un’emozione che salva la vita. Un delicatissimo dispositivo di protezione. Può essere solo adeguata o inadeguata. C’è la paura irrealistica, dove si percepisce come minaccioso ciò che non lo è; e c’è la mancanza assoluta della paura, che non è coraggio ma solo autodistruzione. Paura e coraggio non sono separabili. Un coraggio senza paura ci rende euforici e ci porta al fallimento: non vediamo il pericolo. Una paura senza coraggio ci paralizza: non vediamo la vita. Sia la paura che il coraggio sono attivati dall’interesse. È l’interesse a suscitarli. Restare interessati alla vita: questo dobbiamo fare di fronte alla paura. Restare vivi. Non lasciarci ossessionare dall’oggetto della paura, non lasciarci contrarre. Ecco la pienezza che ci è offerta: vivere la vita che abbiamo in questo momento tra le mani, vivere il presente. Senza le pesantezze del passato e senza l’inutile preoccupazione del futuro. Non saranno i nostri pensieri e le nostre paure a rendere meno pericolosa la vita. Un grande neuroscienziato ha spiegato questo itinerario con un esempio: il sale, in un recipiente piccolo come una tazzina di caffè, rende l’acqua imbevibile. Ma in litri e litri d’acqua ci accorgeremo che il sale può dare sapore. Così è per le paure (e per i dolori) della vita: inserirle nella pienezza dell’esistenza ci permette di attraversarle.
Amico, ascolta il tuo corpo quando hai paura. Cerca di sentirlo tutto. Non solo il petto che tracima ansia. Respira largamente. Dalla testa ai piedi. Attraversa il tuo corpo. Senti la sua vitalità. Continua anche in quel momento ad amare la vita, a sentirti interessato a tutte le vite: la tua, quella di ognuno, quella del creato. E porterai a compimento, a testa alta, il tuo essere nel mondo.