di Giovanni Salonia
Nella nostra ultima puntata abbiamo iniziato una sorta di mappatura dei sentieri che portano lontano, verso l’orizzonte della felicità: il saper attendere ne è di certo un ingrediente fondamentale. L’attesa è felicità in divenire: brama di vivere mista a pazienza del vivere. Il suo dispiegarsi è decisivo per gli umani. Il giorno in cui il cacciatore primitivo, invece di consumare subito la preda appena cacciata, decide di portarla a casa, perché venga cucinata e condivisa, segna l’avvento di un radicale cambiamento antropologico: nasce la civiltà. Gli uomini capiscono che attendere di cucinare la preda e di condividerla non diminuisce il piacere ma lo accresce: in raffinatezza del cibo cotto, in calore femminile, in gratitudine reciproca, ingredienti che fanno di un insieme di individui una comunità umana.
D’altronde, la felicità come attesa è scritta nei vissuti di ognuno di noi. Siamo venuti al mondo nella condizione di ‘attesi’ e ci è stato scritto addosso che siamo protesi verso la felicità perché noi stessi siamo stati brama di felicità. Per questo ci ritroviamo tutti indistintamente gravidi della ricerca costante della lieta esistenza, ‘ad tesi’ verso quella dimensione tanto reale quanto fugace che è strada della vita tutta. Quel tempo dell’attesa di qualcuno che deve venire, che i luoghi comuni osano definire ‘dolce’ ed è in realtà irto di paure ed incertezze, miste a gioia e umane speranze. Sfumature di felicità, sentite un passo dopo l’altro, a volte realizzate, a volte solo sfiorate. Ma l’attesa non segna solo l’avvento ma anche il nostro primo essere al mondo.
Quando il bambino inizia a piangere perché ha fame, dargli subito il capezzolo non fa altro che ridurre la sua soddisfazione. Concedergli un tempo giusto di attesa non solo lo renderà più forte, gli consentirà una soddisfazione più grande, ma soprattutto lo aprirà alla scoperta del corpo dell’altro. Le madri lo sanno: rispondere troppo tardi al bisogno genera senso di abbandono; farlo troppo presto non permette al bambino di scoprire che il capezzolo non è una protesi del suo corpo ma appartiene ad un corpo ‘altro’. Il corpo della madre, nella sua sincronia con il corpo del bambino (è questa l’intercorporeità), conosce la magia del tempo giusto, dove il senso della forza si coniuga mirabilmente col calore dell’alterità..
L’attesa non è dunque un tempo sprecato. Grazie all’attesa ritroviamo l’ordine e il senso degli avvenimenti. Si dice che il tempo è galantuomo. Nel tempo dell’attesa, le emozioni, da ingenue o euforiche si trasformano, diventano sentimenti duraturi, che ci maturano. Nel tempo dell’attesa anche le sofferenze insopportabili vengono assimilate. È stato provato come pure i dolori più grandi, se attraversati fase dopo fase, vengono assimilati e danno ai cuori feriti l’esperienza di un placarsi che sa di calore e di senso. L’attesa aumenta e purifica il desiderio; dà pace e fa scoprire il significato insondabile del dolore. In fondo, impariamo il tempo proprio nell’attesa. Al grande Agostino, che si chiedeva cosa è il tempo, oggi potremmo rispondere così: il tempo è l’attesa, quella quarta dimensione in cui impariamo il nostro corpo e quello dell’altro. Parafrasando i Greci, potremmo dire che nell’attesa ‘passa Hermes’: il dio che insegna i significati e il dialogo. Nell’attesa si impara a sentire il mondo, a leggerlo, a metterlo in comune con l’altro in gesti e parole. Ci vuole sempre tempo. È molto saggio il proverbio brasiliano: il tempo distrugge ciò che senza il tempo è stato edificato. Ciò che è nato senza attesa.
C’è qualcosa di radicalmente umano dunque nell’attendere. Il sabato del villaggio dimora in ognuno di noi. Pregustare la realizzazione di un sogno dà forse più gioia della realizzazione di un obiettivo agognato. La civiltà – intesa come il passaggio dal vivere al saper vivere – non crea il disagio di cui ha parlato Freud. Si rinuncia a un piacere solo perché se ne pregusta uno più fine e più completo, più ampio. Non c’è un principio della realtà o del dovere cui sottostare: vanno scoperti il dovere del piacere e il piacere del dovere. Queste le strade umane per la felicità: dal crudo al cotto; dalla soddisfazione immediata ma fugace ad una soddisfazione differita ma più piena; dal pensare a sé stessi al pensare agli altri. Sono esperienze cardine, che segnalano e segnano il territorio della civiltà e della felicità umane.
Oggi, attesa è diventata sorella di speranza. L’attesa della fine del regno del virus, entità che continua a manovrare spaventosamente le nostre vite. Quanta pazienza abbiamo tentato di gestire e di incentivare in questo faticoso anno appena trascorso, proprio aspettando la libertà desiderata e meritata! La pausa subìta dai nostri corpi e dalle nostre menti durante una pandemia certamente non attesa (lei no!), si trasforma oggi in attesa intesa come strada per la felicità. Lottiamo dunque per non permettere che essa sia contaminata da una qualunque forma di rassegnazione. Anche questa è conquista del lieto vivere: aspettare e desiderare con tutto sé stessi di poter mostrare un sorriso nella sua pienezza, nella sua bellezza, senza l’ombra cupa di una mascherina… Si tratta dell’attesa di una felicità che mai avremmo pensato di desiderare così tanto. E così in tanti. Allora ci accorgiamo che il tempo dell’attesa autentica è anche il tempo anche della speranza. Dare e darsi tempo, attendere sé stessi e attendere l’altro è un’esperienza che ci apre alla speranza, dove il no della gioia di ‘oggi’ prende la forma di un ‘non ancora’. È l’attesa accolta e vissuta a trasformare ogni stop in uno step, in un passo verso la felicità. Siamo chiamati a scoprire oggi più che mai i tempi necessari alla freccia per colpire il bersaglio. È il tiro con l’arco, forse, una delle metafore più puntuali del nostro intrigante mestiere di vivere.