Nessuno può creare teorie fuori dal proprio contesto culturale, può solo intuirne l’oltrepassamento. Freud rimase – e non poteva essere diversamente – dentro un quadro teorico di tipo verticistico: mentre dava alle donne (ovvero alle emozioni e alla follia) la libertà di esprimersi, contestualmente le perimetrava, riservando al potere ‘maschile’ del terapeuta (donna o uomo che fosse) la decisione circa il significato delle parole che erano state liberate. In altri termini, il potere di ricomporre in una significazione – detta anche interpretazione – le parole che fluivano senza costrizioni. È vero, come un novello Mosè (figura che sentiva cara), Freud portò avanti il compito di liberare il mondo emozionale dall’Egitto della rigida struttura superegoica (anche i folli iniziarono il cammino di liberazione dalle Narrenschiff), ma, proprio come Mosè, non poté entrare nella ‘terra promessa’. Fuor di metafora, è questo il cuore del conflitto epistemologico tra psicoanalisi e Gestalt Therapy.
Lisi lo chiarisce in modo convincente. Per i gestaltisti infatti la ‘terra promessa’ non è tanto la libertà di esprimersi (conquista certamente necessaria), bensì l’espressione di sé coniugata con l’istanza regolativa della relazione (ossia della reciprocità) e non con il Super-Io, residuo ultimo della schiavitù egiziana. Ritorna, a un livello più sofisticato, la domanda che attraversa il libro: si è fedeli a Freud se si rimane sul monte a scrutare dall’alto la Terra Promessa – fieri di essere usciti dall’Egitto – o se si continua il cammino? Che senso ha oggi parlare di Super-Io e di inconscio come se fossimo ancora là dove Freud si fermò, trattenuto necessariamente dal contesto culturale?
Giovanni Salonia, Saggio introduttivo, in Rosaria Lisi, Isteria e Gestalt Therapy. «Quando tutto è pertinente», ed. Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2019, pag. 7